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Conoscere noi stessi fino in fondo, fino a esprimere ciò che siamo, è un viaggio che dura tutta la vita. Ma cos’è che ci spinge a essere chi siamo davvero?

Ho deciso di raccontarvi oggi la mia esperienza e ciò che mi ha spinto a diventare quello che sono: una psicologa psicoterapeuta.
Il primo, fondamentale aspetto da indagare è l’Ideale, proprio Ideale con la lettera maiuscola, cioè quello che permette di sognare, di sentirci liberi, che ci fa fantasticare proprio come fanno i bambini e che permette di avere la “via di fuga”. Ho iniziato a “idealizzare” gli psicologi già a 14 anni: loro erano quelli che sapevano tutto di loro stessi e capivano tutto degli altri, potevano avere il controllo del mondo anche nel bel mezzo di una catastrofe e grazie alle loro “tecniche” avrebbero potuto Salvare. Dopo Babbo Natale, anzi proprio per compensare il lutto della sua “scomparsa”, sono passata ad un’altra fede perché senza credere in qualcosa non avrei potuto vivere.

Il secondo aspetto è la scelta dei maestri da cui prendere esempio. Dapprima ci fu, ovviamente, Freud “Il divino”, cui seguirono i grandi psicologi che imparai a conoscere durante gli studi universitari, professionisti talvolta geniali sia nel campo della ricerca che della clinica.

Una grande tragedia investì nel frattempo me e la mia famiglia: sul letto dell’ospedale, pensai allora di presentarmi ai medici come studentessa di psicologia. Ricordo distintamente che mi dissero «Bene, allora sarai utile ora a tutti gli altri», dove gli altri erano rappresentati da tutta la mia famiglia che stava vivendo dolore e morte.

In seguito, i maestri sono diventati sempre più tangibili e dovunque vi fosse Psicologia c’ero anch’io che mi intrufolavo, curiosa e desiderosa di apprendere. Giunto il momento di intraprendere gli studi alla scuola di psicoterapia, ricordo che già dal colloquio di ammissione rimasi folgorata dalle capacità della dottoressa Aurilio: mi sentii come “radiografata” e sentii di dover assolutamente riuscire a capire come avesse fatto a capire cose di me in dieci minuti e in tre battute. Ma non finì qui, perché rimasi affascinata, innamorata, ammaliata dalle capacità “magiche”, quasi profetiche, toccanti al punto e al momento giusto della dottoressa Menafro. «Come faceva?», mi chiedevo. E come dimenticare la devozione, l’animo nobile, gentile, sicuro e salvifico della dottoressa De Laurentis, cui sarò sempre grata. Ho vissuto i quattro anni della specializzazione con la sensazione di trovarmi continuamente davanti a uno specchio, quello dei docenti e del mio gruppo di formazione: in quel momento quasi tutta la mia identità era PSI.

Un mese dopo il diploma in psicoterapia scoprii di essere incinta: avevo fatto spazio a un nuovo amore, eppure ero spaventata. Temevo che la mia vocazione potesse perdere spazio, ma ricordo sempre le parole di un amico e collega che, rassicurandomi, disse «non ti preoccupare che c’è spazio». Ciò che voleva dire è che potevo espandermi, perché l’amore è l’unica forza che allarga davvero.

L’arrivo della pandemia ha stravolto poi ritmi, abitudini, sensazioni: temevo che, ancora una volta, mi sarebbe stato tolto qualcosa. In maniera inaspettata, la pandemia mi ha donato una cosa che non mi apparteneva e che non mi interessava: il senso della realtà. Sono scesa sulla terra e la Psicologia si è umanizzata: ho utilizzato il tempo della stasi per ascoltare, ascoltare davvero e attraverso ogni mezzo, studiare come le persone parlassero e muovessero le mani, quell’unica parte del corpo che spesso riuscivo a vedere nei video, come le mascherine si tirassero quasi tutte allo stesso modo quando le persone parlavano. Ho cominciato a voler conoscere le dinamiche economiche e politiche, le questioni burocratiche, i meccanismi del mondo ed è da qui in poi che ho cominciato a praticare davvero la mia professione. La pandemia ci aveva resi tutti uguali, tutti ugualmente inermi: avevamo solo strumenti diversi che potevano essere messi a servizio.

Cosa vorrei che arrivasse adesso?

Credo servano alcuni ingredienti affinché la vita possa essere onorata e vissuta, come la Fede, da intendersi come senso di fiducia in qualcosa, credere, fantasticare, creare un mondo proprio; seconda è la Prassi, quella che ci spinge e ci fa muovere, che si sforza a rendere tangibile il desiderio che ci fa uscire ad esplorare; la terza è Amare la propria umanità, quella proprio più imperfetta, quella normale che non sa e che chiede. È quando arriviamo alla terza fase, quella della terra e dell’umano, che inizia il volo, ma non è il volo del super uomo: è quello della libertà.