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Il terapeuta è umano. E meno male: sull’autenticità e l’auto-rivelazione in psicoterapia

da | 6 Apr 2025

“Macchemmifrega a me se anche lei litiga con suo marito?”

Questa domanda, ironica ma pungente, racchiude una verità profonda: molti pazienti si aspettano di trovare, in terapia, una figura neutra, silenziosa, imperscrutabile. Una sorta di statua di cera in grado di accogliere, contenere, ascoltare… ma senza mai esporsi.

Eppure, spesso, quello che cura davvero non è la perfezione del terapeuta, ma la sua umanità reale, vissuta nella relazione terapeutica.

Irvin Yalom, uno dei riferimenti più noti e amati della psicoterapia esistenziale, scrive:

“La rivelazione del sé da parte del terapeuta può rappresentare un potente intervento terapeutico, se è onesta, pertinente e centrata sul paziente.”

Ma allora… quando il terapeuta parla di sé, è davvero utile? È etico? È terapeutico?

La self-disclosure: un atto clinico, non narcisistico

Non si tratta di raccontare i propri problemi o di usare lo spazio terapeutico per sfogarsi. L’auto-rivelazione (self-disclosure), quando avviene in modo dosato, intenzionale e finalizzato, può diventare un vero strumento clinico.

Se un paziente si sente perennemente sbagliato, fragile, incapace, e il terapeuta condivide – con misura – di aver attraversato emozioni simili, quell’umanità condivisa normalizza, alleggerisce, rispecchia.

Se un paziente tende a idealizzare o a pretendere troppo (da sé o dagli altri), incontrare un terapeuta che si mostra reale, imperfetto, eppure affidabile, smonta le illusioni tossiche e apre la strada a una relazione autentica.

Il terapeuta come presenza reale nella stanza

Ogni reazione emotiva del terapeuta – noia, fastidio, commozione, tensione – è già dentro il campo relazionale. Ignorarla, silenziarla, renderla “clinicamente invisibile” non la cancella.

Anzi, come dice Yalom, spesso è proprio quando il terapeuta si espone con autenticità che si crea uno spazio davvero trasformativo.

Non è una tecnica da usare sempre. Non è sempre appropriato. Ma è una possibilità che, se esclusa a priori, rende il terapeuta disumano, e la terapia, sterile.

Portare la realtà nella stanza

Quando un terapeuta dice:

“Capisco la tua ansia, anche a me capita di sentirmi così in certe situazioni”,

non sta spostando il focus su di sé. Sta dicendo: “Quello che provi è umano. E possiamo attraversarlo insieme.”

La relazione terapeutica non è un laboratorio asettico. È una relazione vera, protetta, regolata, ma reale. E come ogni relazione autentica, richiede verità.

La verità che anche il terapeuta, a volte, si stanca. Che può essere toccato dalle parole del paziente. Che ha litigato con suo marito, che ha sofferto, che si è sentito perso.

E proprio per questo può riconoscere la sofferenza dell’altro senza giudicarla.

Terapeuta silente o terapeuta presente?

Non è una questione di “parlare tanto” o “parlare poco”. È una questione di presenza. Di responsabilità. Di intenzionalità.

Un terapeuta che non si sbottona mai rischia di alimentare l’idealizzazione.

Un terapeuta che parla solo di sé, invece, diventa invasivo e sposta il fuoco della terapia.

Ma un terapeuta che sceglie quando mostrarsi, che sa usare anche la propria vulnerabilità come strumento clinico, offre al paziente un’esperienza nuova e preziosa: una relazione reale, senza finzioni.

Come dice Yalom:

“I terapeuti efficaci non sono quelli che nascondono se stessi, ma quelli che sanno usare se stessi come parte del processo.”

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