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Sul Disturbo Post Traumatico da Stress si è scritto e si scrive tanto.
Anche io vorrei dare il mio personalissimo contributo, per due ragioni specifiche: la prima perché è stato il tema della mia tesi di laurea nel 2008, la seconda perché nell’anno 2007 ho sperimentato il DPTS sulla mia pelle. In quell’anno, nel mese di agosto, sono caduta giù da un terrazzo che si è spezzato a dirupo sulle rocce e sul mare; insieme a me c’era la mia famiglia e mio padre è morto. Non mi dilungherò nei particolari perché ritengo non siano essenziali ai fini del racconto e della riflessione, lascio ai lettori la libertà di immaginare.

Il DPTS è tecnicamente valutato come l’insieme di segni e di sintomi che seguono l’esposizione a un fattore traumatico estremo. In questa sede non parlerò di DPTS, ma più nello specifico dell’evento traumatico scatenante. L’evento traumatico, infatti, causa un dolore derivante dall’aver sperimentato il senso di finitezza, di impotenza, l’essersi sentiti smarriti e l’aver visto lo stesso smarrimento nei propri cari. Intravedere la morte, arrivare anche a toccarla con mano, scoprire la tremenda fragilità del corpo umano ricorda quanto spesso diamo per scontato il funzionamento del nostro stesso corpo. Si sperimenta così la vergogna nello scoprirsi piccoli e fragili, unita al crollo improvviso dell’eventuale onnipotenza infantile: cadono giù dalla torre dorata anche le figure genitoriali e, se non si ha altra fede, si corre il rischio di cadere nel baratro.
La mia resilienza – parola ormai così in voga – è stata sostenuta innanzitutto dalle mie doti naturali, ma anche dal supporto delle reti sia familiari che amicali che ho avuto intorno: senza le reti affettive e sociali, credo che non potremmo andare da nessuna parte. Un mio personale percorso di psicoterapia mi ha permesso di ritagliare uno spazio solo mio, perché quando ad essere coinvolto è l’intero nucleo familiare le risorse si devono dividere.

In luogo di perizia psichiatrica non mi è stato riscontrato il DPTS, ma l’ho visto manifestarsi intorno a me e ne ho sentito bene il senso, anche se i miei criteri diagnostici non ci rientravano. L’evento traumatico taglia esattamente la vita in due, in un prima e dopo, e dopo l’evento si riparte con un’altra esistenza. L’evento traumatico, inoltre, ci cambia perché fa emergere parti che non si credevano di possedere e se la depressione o l’ansia non invadono tutta la tua vita sei fortunato e vai avanti. Procedere in avanti, sì, ma in che modo? Ecco che interviene la resilienza e ci scrolliamo di dosso le macerie, riprendiamo quel respiro che per un attimo si era fermato, controlliamo le ossa e raccogliamo gli eventuali cocci, soccorriamo chi necessita di più in quel momento perché gli altri siamo anche noi e senza gli altri non siamo nulla. E poi ancora elaboriamo, creiamo, mandiamo giù e trasformiamo, manipolando l’esperienza come creta e creando qualcosa di nuovo.

Questo è un taglio di un filo conduttore che porto sempre con me in terapia. Ho imparato che da soli non si va lontano, che dal dolore possono emergere le cose più belle e che proprio il dolore può essere il mangime con cui si può nutrire altro amore. Posso assicurare che il dolore, il disagio, la “malattia” giungono quando il dolore non è percepito, quando lo si rifiuta, quando ci distraiamo da esso. La terapia, in realtà, non aiuta a estirpare il dolore, ma a riconoscerlo. L’idea che si ha della terapia è che debba estirpare il dolore, per eliminarlo come se fosse un corpo estraneo, ma in realtà il dolore dovrebbe essere integrato dovrebbe trovare una sua dignità e un suo spazio. 

Questo post non nasce solo per dare cenni diagnostici sul dolore e sul dpts, ma anche per mostrare la mia parte “umana”. Come diceva Freud «Il terapeuta deve essere stato in odore di malattia»: quando capita che il terapeuta si senta dire «Non si può capire cosa si prova…» non può fare molto altro che annuire e asserire di poter capire, ma in questo spazio posso concedermi di raccontare qualcosa in più.
La vita è così, a volte fa scherzi strani.