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Il padre in psicoterapia: una figura sullo sfondo

da | 13 Nov 2025

Quando ascolto le storie dei miei pazienti, mi colpisce quanto spesso il padre resti sullo sfondo.

Non sempre assente, ma quasi mai protagonista.

È come se, nelle narrazioni dell’infanzia, la sua presenza si percepisse appena — una sagoma dietro la madre, una figura poco definita, che “c’era ma non c’era”.

A volte compare in una frase breve:

“Lavorava tanto.”

“Non parlava molto.”

“Era buono, ma distante.”

E poi scompare di nuovo, lasciando un vuoto di parole.

Mi accorgo che uno dei compiti più sottili del mio lavoro è proprio questo: farlo riemergere.

Non per giudicarlo, né per idealizzarlo, ma per restituirgli un posto nella storia psichica della persona.

Il padre che si racconta poco

Il padre, in terapia, arriva tardi.

Prima c’è la madre — la sua presenza, la sua voce, la sua influenza.

Poi, lentamente, quando il racconto si distende, affiora anche lui: a volte come assenza, altre come figura ambigua, altre ancora come ricordo affettuoso ma fragile.

Ho imparato che la figura del padre non è solo quella reale, fatta di gesti e parole, ma anche una funzione simbolica: rappresenta la possibilità di separarsi, di andare nel mondo, di costruire un proprio spazio di autonomia.

Quando questa funzione manca o è debole, il mondo resta troppo vicino, troppo invadente, e l’identità fatica a trovare confini.

Lo sforzo di farlo riemergere

Spesso, durante il percorso, provo io stessa la necessità di chiamarlo dentro al racconto.

Non con domande dirette — “che rapporto avevi con tuo padre?” — ma lasciando spazio al silenzio, finché qualcosa di lui trova il coraggio di entrare.

E quando accade, la narrazione cambia profondità.

È come se la storia, fino a quel momento in bianco e nero, improvvisamente acquistasse un’altra dimensione.

Il padre, anche se assente, dà contorno, equilibrio, prospettiva.

Non sempre i pazienti riescono a parlane con tenerezza: spesso emergono rabbia, delusione, estraneità.

Ma anche queste emozioni sono parte di un dialogo necessario — il tentativo di riconoscere quella figura che per troppo tempo è rimasta indistinta.

Il padre oggi

Oggi la figura paterna è più fluida che mai.

Non più solo autorità o regola, ma presenza emotiva.

E proprio per questo, più fragile, più in cerca di forma.

Molti padri si muovono in equilibrio tra il desiderio di esserci e la paura di invadere, tra il bisogno di proteggere e quello di non ripetere modelli rigidi.

In terapia, vedo quanto spesso i figli — ormai adulti — portino dentro di sé la nostalgia di un padre che non hanno mai conosciuto davvero, pur avendolo accanto.

E quanto bisogno ci sia, dentro ciascuno, di poter dire: “Lui c’era, anche se non sapevo come.”

Far tornare il padre nella stanza

Quando il padre torna nel racconto, non torna solo come figura, ma come energia psichica.

È la parte che permette di separarsi, di scegliere, di dire “io”.

Farlo riemergere significa restituire equilibrio alla storia, mettere confine dove prima c’era solo fusione, dare direzione dove prima c’era solo dipendenza.

In fondo, ogni volta che un padre torna nella terapia, qualcosa della realtà torna a respirare.

E il paziente può finalmente guardarsi non solo come figlio di una madre, ma anche come figlio di un padre — reale o simbolico, presente o lontano, ma comunque parte di sé.

👉 Il padre, in terapia, spesso non entra con le parole.

Arriva con un silenzio.

E da quel silenzio, lentamente, comincia a rinascere.

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