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Ogni generazione ha i suoi organi di senso predominanti

da | 30 Ott 2025

Qualche tempo fa, mia figlia ha trovato in un cassetto un vecchio cordless.

Lo ha preso in mano con curiosità, lo ha osservato a lungo, lo rigirava tra le dita, ma non lo portava all’orecchio.

Lo guardava, come si guarda un oggetto misterioso, come se cercasse di capire cosa facesse da solo.

In quel momento mi sono accorta che per lei un telefono è qualcosa da guardare, non da ascoltare.

È stato un piccolo episodio, quasi banale, ma mi ha colpito profondamente: da lì è nata questa riflessione.

Ogni generazione, mi sono detta, ha il suo organo di senso predominante — quello attraverso cui percepisce e interpreta il mondo.

Dalla generazione dell’udito a quella dello sguardo

C’è stata un’epoca — quella dei nostri nonni — in cui la parola era il principale strumento di trasmissione.

Le storie si ascoltavano: intorno al tavolo, alla radio, nei cortili.

Era la generazione dell’udito, in cui la memoria passava di voce in voce, e l’ascolto era il veicolo del legame.

Poi è arrivata la generazione dell’immagine.

Televisione prima, smartphone poi: lo sguardo è diventato l’organo dominante.

Non ascoltiamo più le storie, le guardiamo.

La vista ha sostituito l’orecchio come porta d’accesso al mondo.

Ma insieme alle immagini è cambiato anche il ritmo: più veloce, più immediato, più esigente.

Oggi: la generazione del tocco (senza contatto)

I ragazzi di oggi vivono in una contraddizione sensoriale.

Vivono attraverso il tocco — sfiorano schermi, scorrono, digitano — ma spesso senza contatto reale.

È una generazione tattile ma disincarnata: sente attraverso i polpastrelli ma non attraverso la pelle.

Il tocco digitale è rapido, selettivo, reversibile.

Si “tocca” per mettere like, per scegliere, per scorrere, ma raramente per sentire davvero.

È un paradosso: abbiamo più stimoli sensoriali che mai, ma sempre meno esperienza corporea e affettiva diretta.

Ogni organo di senso modella la mente

Il predominio di un senso cambia il modo di pensare, ricordare e relazionarsi.

Chi cresce nell’era delle immagini sviluppa una mente visiva, abituata al colpo d’occhio ma meno al tempo dell’attesa.

Chi vive di schermi e suoni rapidi si abitua all’istantaneità ma fatica con la profondità.

La psicologia lo sa bene: la percezione costruisce la realtà, e la realtà che apprendiamo plasma la nostra mente.

In terapia: ritrovare i sensi perduti

La psicoterapia, in fondo, è anche un lavoro di riconnessione sensoriale.

È lo spazio in cui si impara di nuovo ad ascoltare, a guardare, a sentire — dentro e fuori di sé.

In seduta, non c’è velocità né filtro digitale: c’è presenza, sguardo, voce, silenzio, corpo.

Molti pazienti oggi portano proprio questa fatica: sentire senza schermarsi, essere in contatto pieno, non solo “collegati”.

Il terapeuta accompagna a riattivare i sensi, a ricucire la distanza tra stimolo ed emozione, tra percezione e significato.

Conclusione

Ogni generazione sviluppa un organo di senso predominante.

Ma forse la vera sfida contemporanea non è sceglierne uno, bensì ritrovare l’armonia tra tutti.

Tornare ad ascoltare con attenzione, guardare con profondità, toccare con rispetto.

Perché i sensi, come le relazioni, esistono solo se siamo davvero presenti.

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