Quest’anno, più di altri, è stato segnato da una parola che di solito pronunciamo sottovoce: arrivederci.
Non addii definitivi, non rotture drammatiche, ma separazioni cariche di senso.
Quelle che non fanno rumore, ma lasciano traccia.
È stato l’anno in cui ho dovuto salutare relazioni, percorsi, presenze importanti.
E voglio dirlo chiaramente: quel momento mi ha fatto male.
Separarsi fa male, anche quando è giusto
C’è una narrazione diffusa secondo cui le separazioni “giuste”, quelle mature, quelle necessarie, dovrebbero essere indolori.
Non è così.
Separarsi fa male anche quando si è consapevoli.
Fa male anche quando si è d’accordo.
Fa male anche quando non c’erano alternative migliori.
Perché non si separano solo due persone o due ruoli:
si separano parti di vita che si sono intrecciate, abitudini condivise, immagini di futuro, identità costruite insieme.
E quest’anno, in alcuni passaggi, l’ho sentito tutto quel dolore.
Arrivederci non è una parola leggera
“Arrivederci” non significa “non conta più”.
Significa: ha contato così tanto da meritare rispetto anche nel lasciarsi.
Ci sono arrivederci che non chiudono una porta di colpo, ma la accostano lentamente.
E proprio per questo fanno più male: perché lasciano spazio alla memoria, al significato, a ciò che è stato.
Come terapeuta, sono abituata a stare accanto al dolore degli altri.
Quest’anno ho dovuto stare anche con il mio.
Gli arrivederci in terapia
Nel mio lavoro, il tema della separazione è centrale.
Ogni fine di terapia è un arrivederci significativo.
E non perché “non ci si vedrà più”, ma perché qualcosa cambia definitivamente forma.
Quando una terapia si conclude, non finisce una relazione:
si trasforma.
Eppure, anche quando il percorso è stato buono, anche quando il lavoro è stato fatto, il momento della separazione può fare male.
Non è un errore, non è un attaccamento patologico.
È il segno che quella relazione è stata vera.
Quest’anno, alcune chiusure mi hanno toccata più di altre.
E non ho cercato di anestetizzarle.
Il dolore non va negato
Viviamo in un tempo che ci chiede di “stare bene”, di “elaborare in fretta”, di “andare avanti”.
Ma alcune separazioni hanno bisogno di tempo.
E di dolore.
Un po’ di dolore fa male.
Ed è giusto così.
Se non facesse male, significherebbe che non c’è stato coinvolgimento, che nulla ha lasciato traccia.
Il dolore, quando è proporzionato e attraversato, è una forma di rispetto verso ciò che è stato.
Imparare a lasciarsi senza cancellare
Una delle cose più difficili — e più mature — è imparare a lasciarsi senza distruggere il legame.
Senza svalutare.
Senza negare.
Conservare una relazione nel cuore non significa restare fermi.
Significa portare con sé ciò che quella relazione ha insegnato, ciò che ha costruito, ciò che ha trasformato.
Quest’anno ho imparato che si può lasciare andando avanti, non fuggendo.
E che il dolore, se ascoltato, non blocca: radica.
Chiudo l’anno così
Chiudo quest’anno sapendo che non tutto ciò che finisce si perde.
Alcune cose finiscono per poter restare dentro.
Gli arrivederci significativi non tolgono valore a ciò che c’è stato.
Lo confermano.
E se mi ha fatto male separarmi, è perché quelle relazioni hanno avuto un senso profondo.
Non lo rinnego.
Lo custodisco.
Forse crescere — come persone e come terapeuti — significa anche questo:
accettare il dolore delle separazioni senza trasformarlo in chiusura,
sapendo che ciò che è stato autentico continua a vivere, anche quando non è più presente.



