Ci sono figli che a quarant’anni ancora non si sentono davvero nati. Figli apparentemente autonomi, capaci, realizzati… ma sempre sul filo. Sempre trattenuti da un vincolo invisibile e antico, fatto di colpa, dovere, lealtà. Non è magia nera: è il cordone ombelicale emotivo mai tagliato.
Uno degli scenari più complessi è quello in cui un genitore, spesso depresso o emotivamente fragile, diventa un punto fermo… ma solo perché ingombrante. Il figlio, ormai adulto, non riesce a vivere pienamente. Si trattiene, si frena, si colpevolizza. Ogni scelta di libertà – un viaggio, una relazione, una nuova casa – viene valutata in base al potenziale “danno” arrecato al genitore. “E se poi sta male?”, “Come farebbe senza di me?”, “Si sente già tanto solo…”
Ma chi è davvero quel genitore?
Spesso è una madre o un padre che ha vissuto a metà, che ha sacrificato desideri e passioni, che ha trasformato il figlio nel proprio investimento emotivo primario. E quel figlio – oggi adulto – si sente invischiato in una trappola sottile: il dovere di “non farlo soffrire” e la sensazione, sempre più opprimente, di non avere diritto alla gioia.
La depressione genitoriale come freno alla vitalità
La depressione di un genitore può diventare il più potente inibitore della felicità di un figlio. Soprattutto se, sin da piccolo, quel figlio è stato il “contenitore” delle emozioni difficili del padre o della madre. Non stupisce allora che, arrivato alla soglia della propria piena espressione, questo figlio si blocchi. Non perché non ne sia capace, ma perché sente che farlo sarebbe un tradimento.
Eppure, non esiste tradimento nella libertà. Il tradimento, semmai, è stato chiedere – in modo implicito – al figlio di farsi garante della propria stabilità. È quando i genitori non si curano della propria salute emotiva che, in modo subdolo, chiedono ai figli di farlo al posto loro. Ed è lì che si crea il paradosso: il figlio per “amore” rinuncia a vivere. Ma quel sacrificio non genera benessere in nessuno.
La rabbia (anche) contro il genitore
E qui entra in scena la rabbia. Quella vera. Quella che spesso viene repressa sotto forma di ansia, senso di colpa o malessere cronico. Ma c’è, eccome. È la rabbia per essere stati trattenuti, per non aver potuto godere della leggerezza, per aver dovuto scegliere sempre “l’altro” prima di sé stessi.
Ed è una rabbia che non va diretta genericamente “alla vita”, ma ha un indirizzo preciso: il genitore. Anche se “poverino”, anche se “non ce la fa”, anche se “è malato”. Non si tratta di colpevolizzarlo, ma di riconoscere quanto, in modo inconsapevole, abbia chiesto al figlio di non vivere davvero. È una rabbia che può essere urlata o silenziosa, manifesta o agita in altri modi. Ma c’è, e va vista.
Solo riconoscendola, questa rabbia può essere trasformata. Altrimenti continuerà a nutrirsi nel corpo e nella mente, come un veleno a lento rilascio.
Separarsi per vivere
Il vero atto di nascita, in questi casi, è psichico. Tagliare il cordone non significa dimenticare, rinnegare o abbandonare. Significa riconoscere che il compito del figlio non è salvare il genitore. Significa assumersi il diritto di vivere pienamente, anche se questo può mettere a disagio chi ci ha generato.
La psicoterapia può essere un luogo prezioso per dare voce a tutto questo: alla rabbia, al senso di colpa, alla paura di deludere. E per imparare, gradualmente, che essere figli non vuol dire essere schiavi. E che si può amare anche da lontano. Anche da liberi.