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Diffidenza: quando la paura protegge (e quando blocca)

da | 29 Ott 2025

La diffidenza è una di quelle emozioni che raramente ammettiamo apertamente.

Suona come un difetto, un tratto negativo del carattere: “non mi fido”, “non mi lascio andare”, “devo controllare tutto”.

Eppure, dietro la diffidenza si nasconde una funzione adattiva, una forma di protezione costruita per evitare il dolore.

Le origini della diffidenza

La diffidenza nasce da esperienze in cui la fiducia è stata tradita, delusa o non riconosciuta.

Quando in passato ci siamo sentiti vulnerabili e non protetti — da un genitore, da un partner, da un amico — il sistema emotivo impara a non fidarsi più completamente.

È un meccanismo di difesa, spesso inconscio, che mira a prevenire nuove ferite.

Sul piano evolutivo, la diffidenza ha avuto un ruolo fondamentale:

ha permesso all’essere umano di sopravvivere, di distinguere tra ciò che è sicuro e ciò che è minaccioso.

Nel cervello, le strutture coinvolte sono le stesse che regolano la paura — in particolare l’amigdala, che segnala potenziali pericoli.

In altre parole: la diffidenza è un modo sofisticato che la mente ha per dire “attento, non farti male di nuovo”.

La funzione della diffidenza nelle relazioni

In una giusta misura, la diffidenza è sana.

Ci aiuta a osservare, a non idealizzare, a concedere fiducia gradualmente.

È come un filtro che protegge l’integrità del sé.

Ma quando diventa eccessiva, la diffidenza si trasforma in chiusura.

Invece di proteggerci dal dolore, finisce per isolarci da ogni possibilità di incontro autentico.

Non fidarsi mai diventa, paradossalmente, il modo più sicuro per non essere mai davvero visti.

Diffidenza e attaccamento

Dal punto di vista psicologico, la diffidenza si lega spesso ai modelli di attaccamento evitante o disorganizzato:

quando, nelle prime relazioni, la fiducia non è stata accolta o è stata tradita, il bambino impara che affidarsi equivale a rischiare troppo.

Diventa allora più semplice controllare, anticipare, mantenere distanza.

Questa modalità, portata nell’età adulta, può rendere difficile vivere relazioni intime: ogni apertura è vissuta come potenzialmente pericolosa.

Ma la buona notizia è che la fiducia può ricostruirsi — lentamente, nell’esperienza di rapporti in cui la reciprocità è costante e rispettosa.

In psicoterapia: la diffidenza come bussola

Molte persone arrivano in terapia portando con sé la diffidenza: verso il terapeuta, verso il processo, verso il lasciarsi andare.

Ed è giusto così.

Anche la diffidenza ha bisogno di essere ascoltata, non forzata.

In un buon percorso terapeutico, la fiducia non si chiede — si conquista.

Seduta dopo seduta, il terapeuta diventa una figura che smentisce lentamente l’aspettativa del tradimento.

È in questa esperienza correttiva che la diffidenza può trasformarsi in discernimento, e la chiusura in apertura controllata.

Conclusione: la diffidenza come alleata silenziosa

La diffidenza non è un errore: è una forma di intelligenza emotiva che ha smesso di fidarsi troppo in fretta.

Il compito non è eliminarla, ma dialogarci, imparando a distinguere quando ci protegge e quando ci imprigiona.

A volte la vita chiede di correre dei rischi, di fidarsi anche tremando.

Perché se è vero che la fiducia espone, è altrettanto vero che senza fiducia non c’è incontro, e senza incontro non c’è crescita.

👉 La diffidenza è nata per proteggerci, ma la fiducia è ciò che ci fa vivere.

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