Negli ultimi anni il linguaggio psicologico è entrato ovunque: nei social, nelle conversazioni quotidiane, persino nel modo in cui parliamo dell’amore.
Parliamo di “attaccamento evitante”, di “dipendenza affettiva”, di “narcisismo” come se ogni relazione potesse essere riassunta in una diagnosi.
Eppure, non tutto ciò che fa male è patologico.
E non tutte le persone che non ci amano come vorremmo hanno un disturbo dell’attaccamento.
Il dolore d’amore non è sempre una malattia
Soffrire per amore è parte della condizione umana.
È il dolore dell’attesa, del distacco, del sentirsi non visti o non scelti.
Un dolore che tocca corde antiche, ma che non per questo merita un’etichetta clinica.
Provare sofferenza in amore non significa essere “disfunzionali”: significa essere vivi.
Amare ci espone, ci rende vulnerabili, e quando l’amore finisce o non trova corrispondenza, la ferita è inevitabile.
Non tutto ciò che duole deve essere curato: alcune esperienze vanno attraversate, comprese, narrate.
Non tutte le persone che non ci amano sono “patologiche”
A volte, per difenderci dal dolore, cerchiamo spiegazioni che ci tranquillizzino:
“Non sa amare”, “è evitante”, “è narcisista”.
Eppure, non tutte le persone che non ci amano sono “malate”.
A volte semplicemente non ci amano, o non come noi vorremmo.
Etichettare l’altro può dare un sollievo momentaneo, ma spesso ci allontana dalla realtà emotiva più autentica: la consapevolezza che amare non garantisce di essere ricambiati.
E che anche questa è una verità da imparare a sostenere.
In terapia: dare dignità alla sofferenza
In terapia, il lavoro non è diagnosticare chi ha amato o chi ha ferito.
È restituire dignità alla sofferenza amorosa.
Capire cosa quella relazione ha toccato dentro di noi, cosa riattiva, cosa ci insegna sul nostro modo di legarci.
Il terapeuta non traduce ogni esperienza in un’etichetta, ma accompagna il paziente a dare significato a ciò che ha vissuto.
A volte la cura non consiste nel “capire cosa non va”, ma nel permettersi di sentire senza giudicarsi.
Legger meno DSM e più poesia
Forse dovremmo imparare a legger meno DSM (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, usato dagli psicologi e psichiatri per classificare i disturbi psicologici) e più poesia.
Non per rifiutare la scienza, ma per ricordarci che l’amore non è un disturbo, è una lingua antica, piena di sfumature.
La poesia ci restituisce ciò che la diagnosi semplifica: la bellezza, la contraddizione, la fragilità dell’esperienza umana.
Ci ricorda che non tutto può — o deve — essere spiegato.
Che alcune emozioni si comprendono solo vivendole e lasciandole respirare.
Conclusione
Non tutta la sofferenza d’amore è patologica, e non tutto ciò che ci ferisce ha una diagnosi.
L’amore non è un campo da analizzare, ma una terra da abitare.
Forse dovremmo tornare a guardare l’amore come un’esperienza viva, non come un sintomo.
E accettare che a volte soffrire non significa ammalarsi, ma semplicemente avere amato a fondo.
In fondo, come direbbe la poesia:
non serve capire tutto per guarire,
basta tornare a sentire.



