Stanotte ho sognato che c’era una blatta nel mio letto. Era un sogno vivido, fastidiosamente chiaro, al punto che mi sono svegliata, ho acceso la luce e ho controllato il letto. Niente. Nessuna blatta. Solo coperte smosse e un po’ di ansia residua. Mi sono rimessa giù, ancora col dubbio: “Ma era davvero un sogno? O magari c’era e ora si è nascosta?”. Il mattino dopo, però, la domanda ha preso un’altra forma: era meglio che fosse un sogno o che fosse realtà?
La risposta istintiva è: meglio il sogno. Perché se fosse realtà, significherebbe che ho una blatta in casa, magari sotto il letto. Ma poi, quella domanda si è spostata su un piano molto più profondo: quanto è sottile il confine tra realtà e immaginazione quando siamo in una condizione psicotica?
In psicosi, accade esattamente questo: si vive una realtà parallela che non è verificabile né condivisibile con gli altri, eppure è assolutamente reale per chi la vive. Voci, immagini, sensazioni: tutto si muove dentro la coscienza in modo vivido, confondendo la percezione.
Ma il punto più interessante – e spesso più doloroso – è quando la persona psicotica conserva una piccola scintilla di dubbio, un residuo di lucidità. È proprio quel residuo che genera angoscia: “e se tutto questo fosse vero?” oppure “e se non fosse vero?”. E se fosse solo nella mia mente, ma non riesco a fermarlo? Oppure: e se davvero questa cosa terribile sta accadendo, ma nessuno mi crede?
In quel momento si apre un dilemma esistenziale: è più tollerabile pensare di essere malati (quindi psicotici, “folli”), oppure che il mondo sia davvero così minaccioso, traditore, cattivo, come lo percepisco?.
E qui, inevitabilmente, entriamo nel cuore delle origini di molti deliri: la famiglia. Quanti pazienti psicotici costruiscono mondi persecutori per spiegarsi emozioni antiche, non elaborate, spesso legate a esperienze precoci di trascuratezza, violenza emotiva, rifiuto? La realtà dell’infanzia, in molti casi, è stata talmente dolorosa, talmente incoerente, che forse – paradossalmente – è meglio credere che il dolore venga da fuori, da un complotto, da una voce cattiva, da un vicino che spia.
La psicosi allora diventa, in un certo senso, un sistema simbolico per dare senso a un dolore altrimenti insensato. È un modo disperato per costruire coerenza dove c’è stata solo frattura.
Il lavoro psicoterapeutico con pazienti psicotici, quindi, non può ridursi a smentire le allucinazioni o correggere i pensieri distorti. Deve passare, inevitabilmente, per il riconoscimento del significato affettivo, relazionale, simbolico di quelle esperienze. Dietro la blatta del sogno, a volte, c’è un padre invadente. Dietro la voce persecutoria, una madre giudicante o un’assenza che ha fatto troppo rumore.
E allora, come terapeuti, la domanda che ci dobbiamo fare non è “è vero o non è vero?”, ma “che cosa rappresenta questa verità per questa persona?”.
Perché, come quella notte con la blatta nel letto, la domanda giusta non è se fosse un sogno, ma perché la mia mente ha avuto bisogno di costruire proprio quell’immagine per svegliarmi. E cosa mi dice di me.