Viviamo in una società in cui “essere produttivi” è diventato sinonimo di valore personale.
Si lavora tanto, spesso troppo, e non solo per guadagnarsi da vivere: per sentirsi “abbastanza”.
Eppure, quando il fare diventa eccessivo, qualcosa dentro di noi inizia lentamente a spegnersi.
È da lì che nasce il burnout — la sindrome del lavoratore “bruciato”.
Etimologia e significato
La parola burnout viene dall’inglese to burn out, bruciarsi, consumarsi.
Non è una semplice stanchezza: è un logoramento emotivo, fisico e mentale che si accumula nel tempo, fino a far perdere energia, motivazione e senso.
Il corpo è presente, ma la mente si ritira.
Dallo stress al burnout: cosa cambia
Lo stress da lavoro è una risposta fisiologica: è ciò che accade quando le richieste superano le risorse disponibili.
Può essere intenso, ma reversibile.
Il burnout, invece, è un passo oltre: è il punto in cui l’adattamento cede, in cui il sistema non riesce più a compensare.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo definisce come una “sindrome derivante da stress cronico sul luogo di lavoro non gestito con successo”, e lo descrive attraverso tre dimensioni principali:
Esaurimento emotivo – sentirsi svuotati, senza energie, con un senso costante di fatica. Depersonalizzazione o cinismo – diventare freddi, distaccati, quasi indifferenti verso colleghi o clienti. Ridotta realizzazione personale – sentirsi inefficaci, inutili, privi di senso nel proprio ruolo.
Le professioni più a rischio
Il burnout colpisce spesso chi lavora in contatto con gli altri — insegnanti, operatori sanitari, psicoterapeuti, educatori, assistenti sociali — ma può riguardare qualsiasi professione in cui ci si dà molto, spesso senza limiti.
Più si è empatici e coinvolti, più si è vulnerabili.
Il paradosso è che il burnout nasce dall’eccesso di dedizione.
Si comincia volendo fare bene, e si finisce a sentirsi spenti, distaccati, talvolta cinici.
Il burnout come perdita di senso
Alla base del burnout non c’è solo la fatica fisica: c’è la perdita di significato.
È quando il lavoro, che un tempo dava identità e orgoglio, diventa meccanico, privo di direzione, a volte persino estraneo a se stessi.
È il momento in cui si lavora tanto, ma non si sente più perché.
Spesso il corpo si fa portavoce prima della mente: insonnia, cefalee, irritabilità, dolori muscolari, difficoltà di concentrazione.
È come se il corpo dicesse: “Non riesco più a sostenere ciò che la mente pretende.”
In terapia: ritrovare l’equilibrio tra fare ed essere
In terapia, il lavoro con chi vive un burnout non è solo di “gestione dello stress”.
È un processo di ricostruzione del senso.
Si parte dal corpo, dal sonno, dai ritmi, ma si arriva alla domanda più profonda: “Per chi e per cosa sto lavorando davvero?”
Spesso, dietro al burnout, si nasconde una difficoltà nel porre limiti, nel deludere, nel dire di no.
La terapia aiuta a ristabilire confini, a distinguere tra il dovere e il desiderio, tra ciò che nutre e ciò che consuma.
Conclusione: tornare a respirare
Il burnout non è un fallimento individuale, ma un segnale collettivo: ci ricorda che la misura dell’efficacia non può essere solo la produttività.
Siamo esseri umani, non motori.
E la vera competenza, oggi, è imparare a dosare le energie senza svuotarsi.
Perché il lavoro dà senso solo se non toglie vita.



