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Durante questi mesi di pandemia ho assistito a un aumento esponenziale di richieste di aiuto, soprattutto da parte di persone di giovane età. Essendo io stessa non solo professionista della salute mentale, ma attrice a mia volta di tutto quanto accaduto, la riflessione che mi è sorta è stata: “Perché tanto disagio? Eppure non siamo stati vittime di una guerra fatta di bombardamenti e morte! Ci hanno chiesto di rimanere al sicuro nelle nostre case”.

Quello che ho notato, sia durante la pratica clinica che nelle mie giornate di vita vissuta, è un aumento non solo del livello di ansia, che non dovrebbe portare a uno stupore particolare in quanto l’ansia è una forma reattiva “naturale” a una situazione come questa e che talvolta può essere vista in forma moderata una reazione vitale, ma la presenza di stati umorali depressivi, di sconforto, di apatia e di stanchezza paradossalmente proprio nel momento in cui almeno in larga parte l’emergenza sembra essere finita.

Sto tentando di dare un significato analizzando ogni giorno anche la mia stessa persona. La nostra generazione, che va dagli anni ottanta circa a oggi e che potremmo chiamare Millennials, non ha vissuto grossi scossoni sociali ed economici: siamo, piuttosto, figli di una società occidentale opulenta e a tratti arrogante. Le guerre e le pandemie ci sono apparse sempre una realtà lontana ed estranea, quasi una “non realtà”, qualcosa che non ci riguardasse. Già quando la pandemia era esplosa in Cina sembrava ancora non riguardarci, almeno finché non ci ha toccato direttamente.

Ed è proprio così che subentra. talvolta, il panico: quando psicologicamente, sia sul piano individuale che collettivo, non siamo preparati, non siamo attrezzati all’idea che la perfezione e l’immortalità non ci appartengono e che il bisogno di sviluppare l’ empatia e ridimensionare il narcisismo non è una questione puramente etica, ma strettamente legata al nostro benessere.

Ancora una volta stiamo ripetendo lo stesso copione, questa volta con i vaccini. Abbiamo fatto in modo di vaccinare tutto il mondo ricco occidentale, lasciando i paesi più poveri indietro e scoperti, permettendo così al virus di continuare a circolare e di ritornare ancora in forme mutate.

Questa pandemia è la metafora del nostro vivere: difatti, quando durante i primi mesi si diceva che ne saremo usciti “migliori”, ho sempre nutrito qualche dubbio. Ne usciranno migliori quelli che con la sofferenza decidono di farci qualcosa. È qualcosa che riscontro anche nella pratica clinica: chi decide di entrare in terapia non è colui che ha maggiori problemi di chi non prende questa decisione, ma il più delle volte è chi riconosce il malessere e vuole “farci qualcosa”. Lo stato depressivo porta con sé quasi sempre una visione egocentrica e narcisistica ed è questo che impedisce di guardare oltre lo stato di sofferenza. Lavorando con i giovani emerge il più delle volte una mancanza di valori, di punti di riferimento di tipo etico, religioso e morale in senso lato che stanno attraversando una crisi e, quando non si hanno più punti di riferimento, quando si dissolvono i “limiti”, gli argini e le regole, subentra l’angoscia. L’ individualismo sfrenato conduce alla solitudine, la mancanza di fede e di fiducia a un vuoto profondo. Ecco allora che quando ci hanno detto di rimanere chiusi in casa la mancanza di risorse interne è emersa e si è fatta sentire. La domanda che ci siamo posti innanzi a quelle lunghe giornate di solitudine è stata “cosa ci faccio adesso con me?”.

Ci si è sentiti “costretti” a farsi compagnia, ad ascoltarsi, a riempire il tempo di altri contenuti, a relazionarsi in famiglia, a toccarsi gomito a gomito in spazi esterni che non avevano nella stessa misura la stessa vicinanza degli spazi interni relazionali. Quando abbiamo sostenuto spesso di preferire la scuola o il lavoro in presenza in realtà stavamo sostenendo un bisogno di fuga dall’interno.

La pandemia è ed è stata una perfetta metafora dei nostri tempi, del mondo che stiamo costruendo, frenetico, che divora tempo e spazio. Dobbiamo lavorare sul ritorno a tempi più vuoti, vuoti di stimoli esterni e riempirli di contenuti sostanziali: quelli che costituiscono la piattaforma sulla quale costruire l’edificio della nostra persona.